COMMISSIONE UE-OCSE: IN EUROPA SI VIVE PIU’ A LUNGO, MA SI SPENDE POCO IN PREVENZIONE

IN ITALIA  POCHI INVESTIMENTI,  DISEGUAGLIANZE E UN’USO ECCESSIVO DI ANTIBIOTICI

In Europa si vive più a lungo. E l’Italia è il secondo paese più longevo, dopo la Spagna. Gli indicatori di stato di salute e di qualità di assistenza sanitaria nel nostro paese sono tra i migliori in Europa, anche se i fondi per la sanità sono ancora troppo ridotti e stanno aumentando le diseguaglianze e si ricorre eccessivamente all’utilizzo di antibiotici. È quanto emerge dalla relazione della Commissione Europea insieme all’OCSE “Health at a Glance : Europe 2016” (http://ec.europa.eu/health/state/glance/index_en.htm) che sottolinea che nonostante l’aspettativa di vita in Europa sia aumentata si continua a morire per malattie che si potrebbero prevenire. Cinquanta milioni di persone soffrono di malattie croniche e i decessi per queste malattie in età lavorativa riguardano oltre mezzo milione di persone in Europa. Il 16% degli adulti è obeso e uno su cinque fuma, le principali cause di decesso rimangono , secondo dati del 2013, le malattie circolatorie e il cancro. Tutto ciò comporta per l’Europa un costo annuo pari a circa 115 miliardi di euro.

Ancora poco disponibile è l’assistenza di base che fa si che il 27% dei pazienti si rechi direttamente al pronto soccorso. Per i pazienti più poveri il rischio di non ricevere cure adeguate è di dieci volte superiore rispetto a chi è più benestante. Anche in Italia si registrano diseguaglianze e il numero di persone che non riesce ad avere accesso a cure mediche di cui necessita a causa di costi eccessivi, la distanza geografica e tempi d’attesa è in crescita: dal 5% nel 2009 al 7% nel 2013, dato che raddoppia per le persone nel gruppo di reddito più basso 14%. Per quanto riguarda le cure dentistiche la percentuale di coloro che non riesce a far fronte alle cure è passata dal 7% al 10% e al 20% nelle fasce più povere. A questo si aggiunge che la popolazione sta invecchiando , coloro che hanno più di sessantacinque anni sono circa il 20% e nel 2060 dovrebbero diventare il 30% della popolazione europea , ne consegue che il sistema sanitario è tenuto a tenerne conto e ridurre gli ostacoli finanziari e i tempi di attesa eccessivi per migliorare l’accesso all’assistenza sanitaria di base .

In Europa il 15% della spesa sanitaria è direttamente pagata dai pazienti, ed esistono forti disparità tra i paesi. In Italia più di tre quarti della spesa sanitaria, il 76%, è finanziato dai soldi pubblici. Il nostro paese dovrebbe però investire maggiormente sulla sanità, nel 2015 ha speso il 9.1 % del Pil, sotto la media Ue del 9.9% . In Germania, Francia e Svezia nello stesso anno alla sanità è andato circa l’11% del Pil. Si deve dire però che l’Italia ha una elevata aspettativa di vita , 83.2 anni , anche grazie alla buona assistenza sanitaria per condizioni potenzialmente letali : il tasso di mortalità in Italia per ricoveri da infarto o ictus è significativamente ridotto ed è fra i più bassi in Europa. Gli esperti bacchettano però il nostro paese per l’uso eccessivo di antibiotici , superiore del 25% rispetto alla media Ue, i medici italiani li prescrivono con troppa facilità, con la conseguenza di una forte diffusione di ceppi batterici resistenti che in periodi di malattia prolungata possono rendere inefficaci alcune terapie convenzionali e aumentare il rischio di decesso e i costi da sostenere. L’utilizzo di farmaci generici è invece al di sotto della media Ue, nel 2014 rappresentava solo il 18% del volume del consumo farmaceutico totale .

 

 

Irene Giuntella

 

Working poor: in Europa anche gli occupati sono a rischio povertà

In Europa il rischio povertà è dietro l’angolo anche per chi ha un lavoro. Pur lentamente riprendendosi dalla crisi e registrando una tendenza positiva sul mercato del lavoro, crescono gli occupati a tempo pieno, i “working poor”, che non riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto nel Sud Europa. È quanto emerge dai dati del Social Justice Index 2016 della fondazione Bertelsmann Stiftung ( https://www.bertelsmann-stiftung.de//en/publications/publication/did/social-justice-in-the-eu-index-report-2016/ ), dove l’Italia si classifica ventiquattresima su ventotto paesi Ue in una lista che vede ai primi posti, anche in questo caso i paesi nordici, Svezia, Finlandia e Danimarca, ultima la Grecia.

La forte diseguaglianza di reddito, il divario intergenerazionale, la disoccupazione giovanile di lunga durata, l’elevato rischio di povertà, sono tra i fattori che hanno reso l’Italia lontana dagli obiettivi della giustizia sociale.

Dai dati del 2015 si rileva che il 9.8% dei lavoratori italiani full time è comunque a rischio povertà. Occupazioni a bassa remunerazione e la scissione del mercato del lavoro in forme occupazionali tipiche e atipiche spiegherebbero secondo gli autori il rischio di povertà crescente che colpisce persino i cittadini Ue che lavorano a tempo pieno . Anche questa categoria rischia così di rimanere esclusa dalla partecipazione alla vita sociale << Un lavoro a tempo pieno non deve solo assicurare un reddito, ma anche il necessario per vivere. Una quota crescente di persone che a lungo termine non riesce a vivere del proprio lavoro , mina la legittimità del nostro ordinamento economico e sociale>> ha affermato Aart De Geus presidente del consiglio di amministrazione della fondazione Bertelsmann Stiftung.

In generale in Europa quasi un cittadino su quattro (118 milioni di persone) , è a rischio povertà o esclusione sociale: preoccupano in particolare la Grecia (35.7%), la Romania (37.3%) , e la Bulgaria (41.3%). In Italia si tratta del 28.7% della popolazione.

I più colpiti sono i giovani : 25.2 milioni di ragazzi in Europa sotto i diciotto anni. Questo drammatico fenomeno riguarda specialmente la Grecia, la Spagna, l’Italia e il Portogallo paesi dove in media un ragazzo su tre rischia la povertà. Mentre si è ridotta la quota di anziani sull’orlo di condizioni di indigenza(5.5%) facendo crescere il divario tra generazioni: un ragazzo su dieci vive in condizioni di gravi privazioni materiali.

Un gran numero di ragazzi italiani potrebbe rimanere escluso permanentemente da un’occupazione stabile e questo comporterebbe forti conseguenze sociali a lungo termine per il nostro paese, se non si interviene a favore di un’attivazione del mercato del lavoro in tempi rapidi. Quasi un terzo dei giovani italiani nel 2015 era inattivo, Neet : non lavorava e non studiava. << La crescente mancanza di prospettive di tanti giovani li spinge verso i movimenti populisti rafforzandoli . Non dobbiamo rischiare che i giovani delusi e frustrati si ritirino dalla società>> avverte De Geus. Le recenti riforme del lavoro seppure nella direzione della crescita di posti di lavoro, non hanno ancora portato i risultati sperati: nel 2015 solo il 56.3% dei cittadini italiani in età lavorativa era inserito nel mondo del lavoro, si tratta di una delle quote più basse in Europa, meglio solo della Grecia e la Croazia. La disoccupazione di lungo periodo in Italia è più che raddoppiata dall’inizio della crisi: nel 2008 era intorno al 3.1% mentre nel 2014 ha raggiunto il 7.9%. In generale la disoccupazione è passata in questi anni dal 6.8% al 12.1% nel 2015.

Lo studio rileva anche che il nostro paese è demograficamente il più anziano e contando la più alta dipendenza strutturale di anziani a cui dovrebbe corrispondere un alto livello di occupati , ma così non è per il momento. Gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo rimangono ancora bassi.

Una nota positiva è che negli anni l’occupazione femminile è andata migliorando ma ancora la strada della parità di genere è molto lunga rispetto alla media Ue.

 

Irene Giuntella

 

Brexit, tagliare i “child benefits” ai migranti Ue non fa la differenza

L’ossessione di Cameron per i benefit dei migranti europei finisce per giocargli qualche scherzo, almeno sui numeri della propaganda. In una lettera indirizzata al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk (https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/475679/Donald_Tusk_letter.pdf ) il premier britannico nelle negoziazioni sulla Brexit, proponeva di abolire i benefit per i migranti Ue residenti in UK per i figli a carico che si trovino però in un altro stato membro. A sorprendere è che solo lo 0.26 % del totale dei sussidi previsti per i figli a carico sono erogati a genitori che hanno bambini residenti in un altro paese europeo. È quanto emerge da un’analisi di Uuriintuya Batsaikan del think tank economico Bruegel (http://bruegel.org/2016/02/child-benefits-for-eu-migrants-in-the-uk/ ) . Nel 2013 a beneficiare dei sussidi sono state 7.5 milioni di famiglie in Inghilterra per 13.1 milioni di bambini, per una spesa totale di 11.5 miliardi di sterline da parte del Regno Unito. Da sottolineare rimane il fatto che rispetto al numero totale dei beneficiari, solo 20.288 famiglie con 34.052 bambini residenti all’estero hanno ricevuto i sussidi inglesi. Per quanto riguarda le detrazioni fiscali per i figli a carico nel corso del 2012 , prosegue l’analisi, 4.1 milioni di famiglie in UK ne hanno beneficiato, ma di queste solo 3.447 avevano figli residenti in altri stati membri.

Le leggi nazionali inglesi ,ricorda l’analisi, non prevedono il pagamento di sussidi per i figli dei residenti in UK , che però vivono altrove, un regolamento della Commissione Ue del 2004 ha stabilito che i paesi europei debbano comprendere nei “family benefits” anche i figli residenti in un altro stato Ue.

Secondo i dati Raccolti da Bruegel, a ricevere più sussidi dal Regno Unito sono le famiglie con i bambini residenti in Polonia : 64.9% delle famiglie totali per oltre 13 mila bambini . Subito dopo i nuclei familiari irlandesi (6%) a sostegno di 1.231 minori, poi i lituani (5.9%) per 1.215 bambini. Mentre sono 156 i bambini residenti in Italia che hanno ricevuto il sostegno inglese.

Nel caso passasse, la proposta di Cameron si tratterebbe di ridurre gli assegni in base al costo della vita del paese dove risiede il bambino beneficiario. In Inghilterra le famiglie godono di assegni settimanali di 20.70 sterline per il figlio maggiore o il figlio unico , a cui si aggiungono 13.70 sterline per un figlio aggiuntivo. Mentre in Polonia si riceve una cifra mensile che varia tra le 14-21 sterline, in Irlanda circa 129 sterline al mese, in Lituania 29 sterline al mese.

 

Progettisti europei, prospettive di lavoro

Avviare un’impresa, realizzare progetti di ricerca, lavorare per amministrazioni locali e nazionali, essere consulente per società o per organizzazioni no profit. Questi alcuni degli sbocchi che l’aspirante “progettista europeo” può trovare. Figura professionale che incuriosisce sempre di più i giovani, a prima vista, appare poco definita: non esiste un albo professionale, e molto diversi possono essere i percorsi da intraprendere per diventare progettista. Girando su internet non è difficile notare un vero e proprio business in questo campo. Esistono corsi di formazione privati ma anche presso le istituzioni.

Una volta intrapreso il percorso, la vita dei progettisti non è certo facile. Districarsi tra le informazioni, relative ai finanziamenti Ue, nei siti delle istituzioni comunitarie rimane ancora un’impresa ardua. Il campo dei finanziamenti europei è decisamente vasto e riguarda diversi settori dalla cultura all’impresa, alla ricerca, all’ agricoltura, ognuno con un proprio bando, proprie scadenze. I finanziamenti sono suddivisi tra diretti e indiretti. I primi sono gestiti dalla Commissione Europea, destinati in genere a progetti per le università, società e imprese. Quelli indiretti strutturali o di coesione (l’80% del bilancio Ue) sono affidati agli stati membri, attraverso le regioni, con accordo di programma con la Commissione Ue ( http://europa.eu/about-eu/funding-grants/index_it.htm ). La strategia Horizon 2014-2020 riunisce tutti i bandi di cultura, ricerca e innovazione: dall’Erasmus a Europa Creativa, dall’agricoltura ai fondi per le piccole e medie imprese (COSME) http://ec.europa.eu/research/participants/portal/desktop/en/opportunities/index.html.

Un aiuto a capire la burocrazia Ue per presentare i progetti può arrivare dal punto di riferimento nazionale APRE, Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea (http://www.apre.it/ricerca-europea/horizon-2020/) che assiste gratuitamente o può rispondere a dubbi dei progettisti. La vera difficoltà arriva al momento della stesura dei progetti: generalmente si sente parlare dei fondi europei quando si parla dell’incapacità del nostro Paese di utilizzarli. Se l’Italia è tra i primi posti per quanto riguarda l’uso di fondi diretti, stanziati dalla Commissione Ue, lo stesso non si può dire per i finanziamenti i cui bandi vengono affidati alle regioni. In quest’ultimo campo, secondo i dati Eurispes dell’aprile 2014, l’Italia deve ancora spendere, entro la data limite del 31 dicembre 2015, più della metà dei finanziamenti affidati alle regioni del settennato 2007-2013. La cifra è considerevole: 14,39 miliardi di euro (http://www.eurispes.eu/content/l%E2%80%99italia-met%C3%A0-le-occasioni-perdute-fondi-ue-ancora-da-spendere-pi%C3%B9-della-met%C3%A0-delle-risorse).

Questo mancato utilizzo viene spesso addebitato a incapacità e incompetenze, ma secondo alcuni addetti ai lavori sarebbe piuttosto riconducibile alla poca trasparenza e alla gestione clientelare dei bandi. << Lo spreco dei fondi a livello locale – commenta Marcello Missaglia consulente in progettazione europea e lobby presso le istituzioni Ue- colpisce soprattutto i giovani che potrebbero avere opportunità lavorative nella realizzazione di questi piani strutturali settennali >>.

Irene Giuntella

Foto della serata elettorale al Parlamento europeo

Lo stress al lavoro riduce la produttività e costa 240 miliardi di euro all’anno

causes-perception-of-work-related-stress-infographic1L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) ha avviato una campagna per attirare l’attenzione sui rischi legati allo stress nei luoghi di lavoro. Benché le lesioni da sforzo ripetitivo, dolori ossei e muscolari, siano il principale problema di salute del lavoratore, lo stress arriva in seconda posizione. Il commissario Ue per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione Lázló Andor ha dichiarato che “lo stress legato al lavoro riduce la produttività”.

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